n°3

18 aprile 2025

CONTEMPORANEA

QUINDICINALE

DI RIFLESSIONE POLITICA

"Il nostro intento consiste nell'osservare la realtà con i piedi ben piantati nel presente e lo sguardo mai rivolto al passato"

by Alessandro Chelo

Perchè CONTEMPORANEA?

A cura della redazione

Perchè il mondo cambia con velocità e intensità inusitate, mai sperimentate fino ad oggi. Non basta dirlo, bisogna tenerne conto, bisogna adottare nuovi paradigmi e, per farlo davvero, bisogna lasciare andare le vecchie credenze e i vecchi ancoraggi. Bisogna mollare gli ormeggi e iniziare a guardare il mondo con occhi nuovi, osservando la realtà con i piedi ben piantati nel presente e lo sguardo mai rivolto al passato. Non serve rimpiangere il bel tempo andato, occorre scovare l'innovazione e comprenderla, da qualunque parte essa provenga, in qualunque forma si presenti, impegnandosi affinchè il nuovo tempo non sia terreno di rivincita, ma di emancipazione; non di recriminazione, ma di accrescimento.

Proveremo a farlo attraverso le nostre rubriche: Caro amico ti scrivo, Il dito e la luna, Il punto di vista, Solleticando. Il nostro stile cercherà di coniugare profondità di pensiero con snellezza. Insomma, pensiamo che si possa approfondire senza per forza dover esibire faticosi pezzi di difficile lettura.

Al fine di facilitare la lettura, non prevediamo alcun inserto pubblicitario: chi desidera sostenere questa iniziativa, può farlo elargendo una personale donazione.

Per un'Italia sempre più libera, sempre più aperta, sempre più prosperosa.

IN QUESTO NUMERO:

CARO AMICO TI SCRIVO

di Alessandro Chelo

Lettera aperta a Antonio Tajani

IL DITO E LA LUNA

di Alberto Fusi

After the gold rush

IL PUNTO DI VISTA

di Mauro Voerzio

Quanti sacchi neri può sopportare la nostra democrazia?

SOLLETICANDO

di Eglaia Tosti

Il fascismo antifascista

caro amico ti scrivo

lettera aperta a Antonio Tajani

di Alessandro Chelo

Egregio Onorevole Tajani,

rivolgo proprio a lei la lettera aperta di questo numero di Contemporanea, la rivolgo a lei perché penso che in questa fase, il ruolo che può esercitare Forza Italia sia particolarmente significativo.

Forza Italia, non sono certo io che devo ricordarglielo, nasce come partito liberale, di centro, europeista. Perché è bene ricordarlo? Perché nel tempo, anche in ragione della necessità di compiacere questo o quell’alleato, l’afflato europeista è andato talora affievolendosi e l’ispirazione liberale, per una serie di ragioni varie e diverse che non é certo il caso di ricordare qui, non ha potuto realizzarsi in modo compiuto. 

Ciò che però, da un punto di vista strettamente politico, considero più rilevante, riguarda l’affievolirsi nel tempo dell’ispirazione centrista. Penso infatti che il senso dell’alleanza di centro-destra, abbia finito per prevalere sull’identità del partito stesso, tanto che, da un certo momento in poi, ha cessato di definirsi forza di centro e ha iniziato a definirsi forza di centrodestra. 

Onorevole Tajani, ho l’impressione che si sia andato confondendo il posizionamento identitario (di centro) con l’alleanza (di centro-destra), e che, da un certo momento in poi, la consapevolezza “centrista” sia andata perdendosi. 

In effetti - credo che lei sia d’accordo -  la propria ispirazione identitaria non deve essere sopraffatta dalle alleanze, pur legittime e giustificate, che si stringono. Per fare un esempio, la stessa Democrazia Cristiana, a suo tempo, seppe stringere un’alleanza (in quel caso con la sinistra) senza perdere il suo connotato identitario centrista.

Nell’odierno scenario, nel quale, tanto a destra quanto a sinistra, emergono, più o meno mascherate, posizioni anti-europee e tanto le politiche della destra quanto quelle della sinistra sono caratterizzate da un certo statalismo, appare imprescindibile ampliare e rafforzare il campo liberale, rivendicandone appunto la posizione centrista.

Per riconquistare il campo liberale, è necessario riprendere e rivalorizzare l’ispirazione originaria di Forza Italia, al fine di abbracciare anche l’elettorato liberale che non si riconosce pienamente nella maggioranza di governo, tornando a spiegare in modo convincente le ragioni profonde di quell’alleanza, non derivanti da mera tattica elettorale, ma da una visione strategica e storica. Unitamente a ciò, occorre trasmettere come solo grazie a una presenza centrista e liberale forte, si possano attenuare nell’ambito della maggioranza di governo, le posizioni più stataliste e isolare le più oscurantiste e anti-europee.

Onorevole Tajani, mi perdoni se mi permetto dei consigli non richiesti, per di più rivolti da un ben umile podio, immagino che lei replicherebbe che tutto ciò si sta già facendo. Forse, ma - mi perdoni ancora - non mi pare che lo si faccia con la forza e la nettezza che il momento richiede, forza e nettezza necessarie per avvicinare quelle ampie porzioni di elettorato che, pur mosse da un’ispirazione centrista e liberale, continuano a guardare a Forza Italia con distacco o diffidenza.

Occorre a mio giudizio dare vita a un vero e proprio nuovo corso, magari inaugurato in modo eclatante,  con un grande evento che catturi l’interesse nazionale ed europeo. Ne va del futuro di Forza Italia, ma soprattutto - che è ciò che conta - del sistema democratico italiano.

il dito e la luna

After the gold rush

di Alberto Fusi

Sono un uomo del Novecento. 

Sono nato nella seconda metà del XX secolo, un’epoca straordinaria, caratterizzata dalla rottura di ogni convenzione sociale. Il mondo occidentale si era appena ricostruito dalle macerie di due guerre mondiali e l’ha fatto in base ad un sentimento psicologico di libertà ed onnipotenza. La combinazione eccezionale di nuove tecnologie a basso prezzo e produzione di massa, ci ha dato la possibilità di superare i vincoli ed i condizionamenti tipici delle economie rurali. La liberazione della donna avvenne grazie alla lavatrice ed alla cucina a gas; altrimenti le nostre mamme sarebbero rimaste a lavare i panni al fiume ed alzarsi alle cinque per accendere il fuoco. La rivoluzione sessuale fu resa possibile dalla diffusione degli anticoncezionali. L’elettrificazione degli strumenti musicali ci ha dato decenni di musica impareggiabile mentre le arti visive (cinema, televisione) ci hanno regalato sogni di mondi nuovi. Mondi che peraltro potevamo per la prima volta esplorare grazie alla mobilità individuale (automobili, motociclette, aerei).

Vivevamo e crescevamo sostenuti da una cultura “no limits”. In cuor nostro pensavamo che il mondo fosse infinito, le risorse naturali eterne e lo sviluppo continuo. Non era vero, ma ci ha dato la forza per sognare. Siamo stati una generazione di sognatori.

Oggi i sogni sono scomparsi, sostituiti dalla cultura del limite. Qualcuno pretende di vivere lasciando l’impronta più lieve possibile sul pianeta. Non dobbiamo usare le nostre auto per non bruciare combustibili fossili, dobbiamo fare la doccia in fretta perché l’acqua scarseggia, dobbiamo riempire in continuazione borracce di latta perché la plastica è peccato. Tutto questo è sostenuto dal ramo mentalmente più limitato della comunità scientifica che dice che il riscaldamento globale è irreversibile. Loro ammettono di non poterci fare niente, quindi l’unica via è minimizzare i danni cambiando il nostro stile di vita. Se i nostri padri avessero ragionato allo stesso modo non si sarebbero impegnati a ricostruire il mondo dopo la guerra perché le macerie erano troppo alte.

Oggi domina la cultura del limite. Non si ragiona su come superare i problemi. Diamo per scontato che siano irrisolvibili e tutte le nostre energie sono spese a cercare un modo per convivere con questi problemi. Per non so bene quale motivo psicologico, il catastrofismo da “the day after” eccita l’animo umano; il cinema e la televisione ci stanno facendo lauti affari da decenni. Questa generazione alimentata da serie televisive che raccontano futuri distopici, è arrivata al punto di soffocare ogni voce che parla di un futuro che non sia di privazioni. Ogni “scienziato” che racconta il count down del global warning (“+ 5° nel 2050, +4° nel 2030…”) è ascoltato come un santo. Se qualcuno prova a dire di investire su forme di generazione di energia pulita che non siano le poche “politicamente corrette” (pale eoliche, pannelli solari, palesemente non sufficienti) viene linciato come un untore. E ’successo recentemente a chi ha parlato di nucleare a confinamento magnetico. Linciati mediaticamente, ma ora è in corso la beatificazione post-mortem

C’è una grande voglia di tragedia. Come nel medioevo, le varie “Chiese” che dominano l’opinione pubblica corrente, insegnano che la vita terrena è piena di sacrifici, ma che in un’altra vita saremo ricompensati.

Ma i giovani che (come da sempre fanno i giovani) manifestano per la giustizia ecologica, veramente riusciranno a vivere in un mondo senza sogni e senza sfide? Un mondo dove non viaggeremo, dove lavoreremo da casa per non inquinare, dove non proveremo l’eccitazione della velocità, dove vestiremo tutti uguali? Un mondo che vedremo solo attraverso lo schermo di uno smartphone?

Alla generazione dei sognatori incoscienti si è davvero sostituita una generazione di tristi responsabilizzati? Una generazione che liquida frettolosamente il mondo intorno a loro come un “bla, bla, bla” …. . Quelli che stigmatizzano i “bla, bla, bla” sanno di essere loro stessi nient’altro che un “bla, bla , bla”. Come chiunque che dice che le cose non vanno ma chiede agli altri di fare qualcosa. Loro non hanno una proposta. Loro zittiscono chiunque non sia d’accordo con le loro visioni bollandoli come parolai e contrapponendo la loro verità.

La storia ci insegna però che tutte le volte che l’umanità si è trovata sull’orlo della catastrofe, ha sempre trovato le risorse intellettuali per infrangere i vincoli e ribaltare una situazione che sembrava disperata. La grande crisi degli anni ’30, la distruzione delle guerre, la guerra fredda, la fine delle superpotenze…Si è sempre trovato una risposta a tutto. Ma la condizione è cercarla. Se accettiamo il fatto che la vita sia evoluzione e cambiamento, non immobilismo e regressione, la strada appare non costellata di vincoli, ma di speranze.

La corsa all’oro finisce solo se noi smettiamo di correre. Perché l’obiettivo non è l’oro (che non esiste, oggi come ieri). L’obiettivo è correre.

IL puntO di vista

Quanti sacchi neri può sopportare la nostra democrazia?

di Mauro Voerzio

Noi europei, e in modo particolare noi italiani, nel malaugurato caso, sapremmo e soprattutto vorremmo davvero difenderci? “La domanda sorge spontanea”, si sarebbe detto negli anni 80 e, in tempi di rinnovato turbo-pacifismo senza se e senza ma, in un paese come l’Italia che non ha mai avuto ben chiaro il concetto di alleanze militari e di conflitti cinetici, la risposta non è così scontata.

Winston Churchill diceva che "Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”, é comunque diffusa tra gli italiani la sensazione che vale sempre la regola di allearsi con chi si pensa possa vincere, salvo poi cambiare in corsa. 

Ma tutto questo valeva nel passato, poi con la Costituzione repubblicana si è introdotto l’articolo 11 sul ripudio della guerra. Questo articolo è divenuto il totem dei pacifisti a la carte ed è stato di fatto modificato dagli stessi, senza passare dalle forche caudine del Parlamento e di un eventuale referendum. Il “pacifista”, infatti, interpreta l’articolo 11 senza tener conto della parte in cui è scritto “come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.  Tale parte è stata abrogata dai pacifisti in favore di un ripudio della guerra tout court.

Il fatto che qualcuno si appropri del termine “pacifista”, è di per sé una cosa abominevole, come se “gli altri” fossero tutti sadici assassini che godono a dormire sotto i bombardamenti o a vedere le proprie figlie violentate dai soldati nemici. Il modo manipolatorio e non sempre così pacifico con cui certi personaggi utilizzano questa distorsione, rende l’idea della bassezza del dibattito politico italiano.

Voglio qui ricordare le parole di Marco Pannella, storico critico del pacifismo italiano: «Non-violenza e democrazia politica devono vivere quasi come sinonimi. Da un secolo non vi sono guerre tra democrazie: diritto e libertà sono la prima garanzia. E il pacifismo storico, nei fatti, lo ha sempre ignorato. Perché i giovani sappiano, i vecchi ricordino e si cessi di ingannarli: il pacifismo in questo secolo ha prodotto effetti catastrofici, convergenti con quelli del nazismo e del comunismo. Se il comunismo e il nazismo sono messi al bando, il pacifismo merita di accompagnarli». 

Il tema esercito si - esercito no, è recentemente tornato in auge, specie dopo le manifestazioni organizzate dal mondo politico riferito al centrosinistra contro il progetto di sicurezza e riarmo proposto dall’Unione Europea e contro ogni assistenza militare all’Ucraina e a qualsiasi nazione in guerra.

Il pacifismo integrale proposto dal campo largo a guida grillina, suggerisce alcune domande, domande alle quali i nostri pacifisti dovrebbero dare una risposta.

La prima, ovvia, è la seguente: perché tenere un esercito e sprecare due punti di PIL nelle spese militari, se comunque in caso di guerra noi italiani siamo per la “pace” e il ripudio della guerra a oltranza? Voi comprereste una lavastoviglie se il regolamento di condominio ne vietasse l’uso e aveste deciso che, comunque vada, laverete sempre i piatti a mano?

La seconda domanda è più insidiosa: quanti italiani sarebbero disposti a mobilitarsi? Quanti stranieri che popolano le nostre città, potrebbero essere mobilitati in caso di guerra?

A sentire Conte e Fratoianni, ma anche Schlein e Salvini, il mantenimento di un esercito è uno spreco di soldi assurdo così come lo è investire in sicurezza nazionale. Traspare il retro-pensiero che, in caso di una aggressione al nostro paese, in fondo, da buoni italiani, troveremmo il modo di metterci d'accordo con il nemico e, grazie alla nostra storica flessibilità, saremmo anche disposti ad una dominazione soft, insomma l’arte del Franza o Spagna purché se magna portata all’estremo, tenendo però presente che tanti personaggi che diffondono queste idee, a mala parata, potrebbero facilmente trasferirsi in Svizzera o comunque avrebbero disponibilità finanziarie tali da rilocarsi in 48 ore e lasciare la plebe a godersi la dominazione soft.

Nessuno ha mai sondato quanto oggi gli italiani sarebbero disposti a difendere la loro libertà e la democrazia, nessuno sa quale sia il punto di rottura per cui si potrebbe anche accettare di far uscire la propria figlia con un velo islamico obbligatorio o di non poter più usare liberamente internet.

La domanda se in caso di aggressione vorremmo davvero difenderci, non è pertanto campata in aria, non è un semplice gioco filosofico, ma sta diventando una domanda cruciale. 

Chi sarebbe disposto a difendere armi in pugno i principi democratici dell’Italia?

Anni fa, durante una audizione in Parlamento, feci una domanda semplice a cui nessuno seppe o volle rispondere (e a tutt’oggi nessuno mi ha ancora risposto), ovvero “quanti sacchi neri (i soldati uccisi, KIA, vengono messi all’interno di sacchi neri prima di essere rimpatriati e ricomposti) potrebbe sopportare la nostra democrazia”?

Questa domanda è fondamentale e si collega a quella precedente. 

La Russia ci ha lanciato la sua sfida, Putin ha dimostrato che la sua politica del numero è da tre anni vincente, lui può permettersi un milione di perdite e non vedere in alcun modo scalfito il suo potere, mentre la nostra debole democrazia, quante perdite potrebbe sopportare? 10, 100, 1.000, 10.000 sacchi neri? Probabilmente non più di dieci e poi il Governo cadrebbe con le piazze italiane che sarebbero occupate da migliaia di pacifisti (quelli di cui sopra) i quali chiederebbero di fermare le armi e di trovare un accordo con il nemico e di conseguenza accettare la dominazione, soft o meno soft.

In questo scenario, se la maggioranza dei cittadini italiani davvero preferirebbe una dominazione piuttosto che una resistenza al nemico, che senso ha mantenere un esercito spendendo soldi di tutti noi contribuenti?

solleticando

Il fascismo antifascista

di Eglaia Tosti

Quando nel dopoguerra si diede vita alla Repubblica Italiana, si scelse, con la benedizione di Stalin e, più tiepida, di Truman, di stipulare un patto fra mondo cattolico e mondo comunista. La Costituzione, specie nella sua prima parte, trasuda di sintesi e compromessi fra questi due mondi.

Il collante del patto fu rappresentato dalla retorica anti-fascista, un espediente volto a suggellare l’accordo istituzionale. Taluni videro un rischio nell’utilizzo dell’espediente anti-fascista e cioè che qualcuno avrebbe potuto avere la tentazione di etichettare come “fascista” qualunque idea, forza, proposta, esponente fuori da quel patto catto-comunista, finendo per bloccare il sistema democratico e ostacolare l’insorgere di una concezione liberale delle Istituzioni Repubblicane. 

Lo stesso De Gasperi, al fine di stemperare questo rischio, propose di celebrare il 25 Aprile come “ festa nazionale per la liberazione del suolo patrio dall’occupazione da parte della Germania nazista”. Un modo per fare del 25 aprile la gioiosa celebrazione dell'unità nazionale. Non fu di certo ascoltato, il 25 aprile divenne una ricorrenza anti-fascista che qualche anno dopo ebbe anche la sua colonna sonora, quella Bella ciao che nessun partigiano si è mai sognato di cantare. Anno dopo anno, sempre meno festa e sempre più occasione rivendicativa.

Per farla breve, gli scettici avevano ragione, d’altronde già all’indomani della fine della guerra, le avvisaglie c’erano tutte, se si pensa che nel solo triangolo tra Reggio, Modena e Bologna, si consumarono vendette ed esecuzioni sommarie di decine di migliaia di persone. 

Lo stesso ANPI tollerava molto malamente che facessero parte dell’Associazione, partigiani non appartenenti al mondo cattolico o comunista e molti socialisti, definiti social-fascisti, scelsero di uscirne. Quel clima si diffuse rapidamente e se ne ebbe chiara evidenza con la criminalizzazione dei nostri concittadini, profughi da una terra (Istria, Dalmazia) non più italiana. Costoro non hanno festeggiato il fatto di poter vivere finalmente felici nella Jugoslavia comunista del Maresciallo Tito? Cosa potevano essere se non “fascisti”? Le umiliazioni e le violenze che subirono le genti dei treni che riportavano in patria questi nostri connazionali, passarono sotto silenzio, furono di fatto giustificate, in nome dell'anti-fascismo. Questa infamia ha lordato lo stemma della Repubblica in modo irreparabile e solo la nascita di una Seconda Repubblica potrebbe mondarlo. Il fatto che tuttora, in tante manifestazioni anti-fasciste, diversi giovani, vittime della propaganda, urlino “il compagno Tito ce l’ha insegnato, uccidere un fascista non é reato”, rende l’idea di quanto tutt’oggi si faccia fatica a scrollarsi di dosso questa zavorra.

Poi venne il tempo dell'antifascismo "militante": teste spaccate e case bruciate, con una certa tacita accondiscendenza da parte di molti, d'altronde, come si dice, "il fascismo non è un'opinione, è un crimine". Allo stesso modo, oggi si considera tutto sommato comprensibile che nelle Università si neghi il diritto di parola a esponenti che non si riconoscono nel mondo catto-comunista. Eh sì, anche costoro non possono essere che fascisti, così si pensa. Così, appena qualcuno governa senza l’appoggio del mondo catto-comunista, è il caso di Meloni, ma lo fu anche per Berlusconi, si grida al pericolo fascista e l’imperativo diventa “de-fascistizzare”. D’altronde questo è un espediente utilizzato anche da Putin per negare il diritto ad esistere dell’Ucraina: essa andrebbe de-nazificata, naturalmente con la benedizione dell’ANPI.

Ogni 24 marzo si onorano le vittime delle Fosse Ardeatine ad opera dei soldati nazisti. Allo stesso modo, ogni 10 febbraio si onorano le vittime delle foibe ad opera dei partigiani comunisti slavi. La prima ricorrenza è considerata sacra e, giustamente, nessuno può permettersi di discuterla. La seconda ricorrenza è invece tuttora accompagnata da una grandinata di distinguo, j’accuse, richieste di “contestualizzazione”, “si, ma” e “si, però”, tanto che in molte manifestazioni anti-fasciste si sente cantare da parte di alcuni gruppi "com'è bello far le foibe da Trieste in giù". Così si comportano gli “anti-fascisti”. Ma è davvero così difficile onorare "senza se e senza ma" ogni 24 marzo le vittime delle Fosse Ardeatine e ogni 10 febbraio le vittime delle foibe? È davvero così difficile condannare gli orrori prodotti dal fascismo e dal comunismo? Sì, in Italia è difficile: se ti definisci anti-comunista, sotto sotto, inevitabilmente, sei considerato un po’ fascista. Sì perché in fondo, secondo molti antifascisti, il comunismo sarebbe anche una buona idea, é che é stata applicata male, quindi i regimi comunisti in realtà cosa sono? Ma ca va sans dir: sono fascisti.

L’ossessione nei confronti del nemico e l’identificazione degli avversari politici col nemico da neutralizzare, é fondamento di ogni totalitarismo. Per questo sostengo che l’atteggiamento politico con cui si pratica questo genere di antifascismo, é in fondo di stampo totalitario. Così, molte persone che, come me, aborrono il fascismo in ogni sua declinazione, provano disagio nell’identificarsi con questo genere di anti-fascismo. 

Con tutto ciò, fra pochi giorni, il 25 aprile 2025, si celebrerà l'ottantesimo di questa ricorrenza. Riusciremo a viverla come una festa nazionale? Temo di no, temo che anche quest'anno, anzi, quest'anno più che in altri - pensiamo alla Brigata Ebraica - assisteremo a rivendicazioni violente, vendette e contro-vendette. Ottant'anni dopo. Ottanta.

ALESSANDRO CHELO

Sono nato a Genova nel 1958.

Ho pubblicato diversi saggi con Sperling & Kupfer, Guerini e Feltrinelli, alcuni tradotti in più lingue fra cui il coreano e il giapponese.

Dopo aver lungamente scritto per Stradeonline, Linkiesta e Il Riformista, mi dedico oggi, a CONTEMPORANEA.

Alessandro Chelo

I miei articoli scritti per:

collaborano con la redazione di contemporanea

Mauro Voerzio, Torino, 1968. Analista geopolitico, esperto di guerra ibrida. Dal 2015 al 2019, ricercatore presso l’Università del giornalismo di Kyiv per il progetto StopFake; dal 2019 al 2023, Esperto Nazionale in Georgia per l’Unione Europea; autore di Gli Angeli di Maidan (2014) e Guerra Ibrida - attacco all’Europa (2019).

Luca Monti, Como, 1968. Vive a Blevio sul lago di Como. Autore di Un orso rosso a New York (2021), Generazione 1968 (2016), L’immortalità (2016). È fondatore di Copernicani ETS - Associazione per l’innovazione. Dal 1994 opera nell’ambito dello sviluppo del capitale umano. Ha progettato e coordinato servizi innovativi finanziati dall’Unione Europea per la formazione, l’istruzione e il lavoro.

Paolo Scavino, Genova 1964. Consulente di direzione e formatore su sistemi di gestione e modelli organizzativi. Autore de Il fiato spezzato (2013). Vive a Genova e osserva con interesse e qualche timore il cambiamento in atto.

Nera è un gioco, uno strumento ed un mezzo espressivo. Una compagna di viaggio ed un rifugio.
È una provocazione, una proiezione, la mia parte piú vera.

Collabiorano inoltre Eglaia Tosti, Jeremy Olek che si racconta nel libroJeremi e la farfalla che volava in inverno.

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